IL SACRAMENTO DEL PERDONO


(Pedron Lino)

 

Indice:

Il peccato, realtà poco capita
La nuova nascita della Riconciliazione
La Chiesa tra Dio e gli uomini
Ma guarisce davvero questa medicina?

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IL PECCATO, REALTÀ POCO CAPITA

Nei nostri tempi si constata la disaffezione dei cristiani nei confronti della confessione. È uno dei segni della crisi di fede che molti stanno attraversando. Stiamo passando da una compattezza religiosa del passato a un’adesione religiosa più personale, consapevole e convinta.

A spiegare questa disaffezione verso la confessione non basta portare il fatto del generale processo di scristianizzazione della nostra società. Bisogna individuare cause più particolari e specifiche.

La nostra confessione si riduce spesso a un elenco meccanico di peccati che mettono in luce solo la superficie dell’esperienza morale della persona e non arrivano a toccare le profondità dell’anima.

I peccati confessati sono sempre gli stessi, si ripetono con esasperante monotonia tutta la vita. E così non si riesce più a vedere l’utilità e la serietà di una celebrazione sacramentale diventata monotona e fastidiosa. Gli stessi sacerdoti qualche volta sembrano dubitare dell’efficacia pratica del loro ministero nel confessionale e disertano questo lavoro monotono e faticoso. La cattiva qualità della nostra pratica ha il suo peso nella disaffezione verso la confessione. Ma alla base di tutto spesso c’è qualcosa di ancora più negativo: una conoscenza inadeguata o sbagliata della realtà della riconciliazione cristiana, e un malinteso a proposito della vera realtà del peccato e della conversione, considerati alla luce della fede.

Questo malinteso è dovuto in gran parte al fatto che molti fedeli hanno solo qualche ricordo della catechesi infantile, necessariamente parziale e semplificata, per di più trasmessa con un linguaggio che non è più quello della nostra cultura.

Il sacramento della riconciliazione è di per sé una delle esperienze più difficili e provocanti della vita di fede. Per questo va presentato bene per comprenderlo bene.

Concezioni inadeguate del peccato

Si dice che non possediamo più il senso del peccato, e in parte è vero. Non c’è più senso del peccato nella misura in cui non c’è senso di Dio. Ma ancor più a monte, non c’è più senso del peccato perché non c’è abbastanza senso di responsabilità.

La nostra cultura tende a nascondere ai singoli i legami di solidarietà che legano le loro scelte buone e cattive al destino proprio e degli altri. Le ideologie politiche tendono a convincere i singoli e i gruppi che la colpa è sempre degli altri. Si promette sempre di più e non si ha il coraggio di fare appello alla responsabilità dei singoli verso il bene generale. In una cultura della non-responsabilità, la concezione prevalentemente legalistica del peccato, trasmessaci dalla catechesi di una volta, perde ogni senso e finisce per cadere. Nella concezione legalistica il peccato viene considerato essenzialmente come disubbidienza alla legge di Dio, quindi come rifiuto di sottomettersi al suo dominio. In un mondo come il nostro in cui si esalta la libertà, l’ubbidienza non è più considerata una virtù e quindi il disubbidire non è considerato un male, ma una forma di emancipazione che rende l’uomo libero e gli restituisce la sua dignità.

Nella concezione legalistica del peccato, la violazione del comando divino offende Dio e crea un debito nostro nei suoi confronti: il debito di chi offende un altro e gli deve riparazione, o di chi ha commesso un reato e deve essere punito. La giustizia esigerebbe che l’uomo pagasse tutto il suo debito ed espiasse la sua colpa. Ma Cristo ha già pagato per tutti. Basta pentirsi e riconoscere il proprio debito perché questo gli venga perdonato.

Accanto a questa concezione legalistica del peccato ce n’è un’altra - anch’essa inadeguata - che chiamiamo fatalistica. Il peccato si ridurrebbe allo scarto inevitabile che esiste ed esisterà sempre tra le esigenze della santità di Dio e i limiti insuperabili dell’uomo, che in questo modo si trova in una situazione insanabile nei confronti del progetto di Dio.

Siccome questa situazione è insuperabile, essa è per Dio l’occasione di rivelare tutta la sua misericordia. Secondo questa concezione del peccato, Dio non prenderebbe in considerazione i peccati dell’uomo, ma semplicemente rimuoverebbe dal suo sguardo la miseria inguaribile dell’uomo. L’uomo dovrebbe solo affidarsi ciecamente a questa misericordia senza preoccuparsi più di tanto dei suoi peccati, perché Dio lo salva, nonostante egli resti un peccatore.

Questa concezione del peccato non è l’autentica visione cristiana della realtà del peccato. Se il peccato fosse una cosa così trascurabile, non si riuscirebbe a capire perché Cristo sia morto sulla croce per salvarci dal peccato.

Il peccato è una disubbidienza a Dio, riguarda Dio e colpisce Dio. Ma l’uomo per capire la terribile serietà del peccato deve cominciare a considerarne la realtà dal suo versante umano, rendendosi conto che il peccato è il male dell’uomo.

 Il peccato è il male dell’uomo

Prima di essere una disubbidienza e un’offesa a Dio, il peccato è il male dell’uomo, è un fallimento, una distruzione di ciò che rende uomo l’uomo. Il peccato è una realtà misteriosa che incide tragicamente sull’uomo. La terribilità del peccato è difficile da comprendere: è visibile del tutto solo alla luce della fede e della parola di Dio. Ma qualcosa della sua terribilità appare già anche a uno sguardo umano, se si considerano gli effetti devastanti che esso produce nel mondo dell’uomo. Basta pensare a tutte le guerre e gli odi che hanno insanguinato il mondo, a tutte le schiavitù del vizio, alla stupidità e alla irrazionalità personale e collettiva che hanno causato tante sofferenze note e ignote. La storia dell’uomo è un mattatoio!

Tutte queste forme di fallimento, di tragedia, di sofferenza, nascono in qualche modo dal peccato e sono legate al peccato. È quindi possibile scoprire un collegamento reale tra l’egoismo, la viltà, l’inerzia e la cupidigia dell’uomo e questi mali individuali e collettivi che sono la manifestazione inequivocabile del peccato.

Primo compito del cristiano è acquisire per sé il senso della responsabilità, scoprendo il legame che unisce le sue scelte libere di uomo ai mali del mondo. E questo perché il peccato prende corpo nella realtà della mia vita e nella realtà del mondo.

Esso prende corpo nella psicologia dell’uomo, diventa l’insieme delle sue abitudini cattive, delle sue tendenze peccaminose, dei suoi desideri distruttivi, che diventano sempre più forti in seguito al peccato.

Ma prende corpo anche nelle strutture della società rendendole ingiuste e oppressive; prende corpo nei mezzi di comunicazione facendone strumento della menzogna e del disordine morale; prende corpo nei comportamenti negativi dei genitori, educatori... che con gli insegnamenti sbagliati e i cattivi esempi introducono elementi di deformazione e di disordine morale nell’animo dei figli e degli alunni, depositando in essi un seme di male che continuerà a germogliare per tutta la vita e forse sarà trasmesso ad altri ancora.

Il male prodotto dal peccato ci sfugge di mano e causa una spirale di disordine, di distruzioni e di sofferenze, che si allarga molto al di là di quanto pensavamo e volevamo. Se fossimo più abituati a riflettere sulle conseguenze di bene e di male che le nostre scelte produrranno in noi e negli altri, saremmo molto più responsabili. Se, ad esempio, il burocrate, il politico, il medico... potessero vedere le sofferenze che essi causano a tante persone con il loro assenteismo, la loro corruzione, il loro egoismo individuale e di gruppo, sentirebbero in modo ben più grave il peso di questi atteggiamenti che forse non avvertono per nulla. Quello che ci manca è quindi la consapevolezza della responsabilità, che ci permetterebbe di vedere anzitutto la negatività umana del peccato, il suo carico di sofferenze e di distruzione.

Il peccato è il male di Dio

Non dobbiamo dimenticare che il peccato è anche il male di Dio proprio perché è il male dell’uomo. Dio è toccato dal male dell’uomo, perché egli vuole il bene dell’uomo.

Quando parliamo della legge di Dio non dobbiamo pensare a una serie di comandi arbitrari con cui egli afferma il suo dominio, ma piuttosto a una serie di indicazioni segnaletiche sulla via della nostra realizzazione umana. I comandamenti di Dio non esprimono tanto il suo dominio quanto la sua sollecitudine. Dentro ogni comandamento di Dio c’è iscritto questo comandamento: Diventa te stesso. Realizza le possibilità di vita che ti ho dato. Io per te non voglio altro che la tua pienezza di vita e di felicità.

Questa pienezza di vita e di felicità si realizza soltanto nell’amore di Dio e dei fratelli. Ora il peccato è il rifiuto di amare e di lasciarsi amare. Dio infatti è ferito dal peccato dell’uomo, perché il peccato ferisce l’uomo che egli ama. È ferito nel suo amore, non nel suo onore.

Ma il peccato colpisce Dio non soltanto perché delude il suo amore. Dio vuole intessere con l’uomo un rapporto personale di amore e di vita che per l’uomo è tutto: vera pienezza di esistenza e di gioia. Invece il peccato è un rifiuto di questa comunione vitale. L’uomo, amato gratuitamente da Dio, rifiuta di amare filialmente il Padre che lo ha tanto amato da dare per lui il suo Figlio unico (Gv 3,16).

Questa è la realtà più profonda e misteriosa del peccato, che può essere capita solo alla luce della fede. Questo rifiuto è l’anima del peccato in opposizione al corpo del peccato che è costituito dalla distruzione constatabile di umanità che esso produce. Il peccato è un male che nasce dalla libertà umana e si esprime in un no libero all’amore di Dio. Questo no (il peccato mortale) distacca l’uomo da Dio che è la fonte della vita e della felicità. Esso è di sua natura qualcosa di definitivo e irreparabile. Soltanto Dio può riallacciare le relazioni di vita e colmare l’abisso che il peccato ha scavato tra l’uomo e lui. E quando avviene la riconciliazione non si tratta di un generico aggiustamento di rapporti: è un atto di amore ancora più grande, generoso e gratuito di quello con cui Dio ci ha creato. La riconciliazione è una nuova nascita che fa di noi delle creature nuove.

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LA NUOVA NASCITA DELLA RICONCILIAZIONE

La riconciliazione trova il suo avvio nell’iniziativa preveniente dell’amore misericordioso di Dio. Questo amore non si arrende davanti al rifiuto dell’uomo, ma rivela la sua sconfinata profondità nella volontà salvifica di Dio. Egli è venuto incontro a noi nella persona di Gesù e ha reso possibile quello che era impossibile alle sole nostre forze: la nostra riconciliazione con Dio.

L’amore preveniente di Dio viene prima della nostra conversione in senso cronologico e la rende possibile.

Quando il nostro modo di pensare la conversione prescinde da questa iniziativa preveniente di Dio, essa corre il rischio di sembrare una riconquista personale dell’uomo, qualcosa che rientra nell’ambito delle sue possibilità, che è a portata della sua libertà: come egli si è allontanato da Dio, così può tornare a lui. Dio si limiterebbe a perdonare colui che, pentito, ritorna a lui.

Immaginando le cose in questo modo, ricadiamo ancora una volta in una concezione legalistica del peccato, ridotto a poco più di un debito, che Dio può liberamente condonare. In questo caso il ruolo di Dio diventa decisamente secondario: io prendo l’iniziativa di pentirmi, poi lui ne prende atto e mi perdona. Ma non è così: Dio ha l’iniziativa assoluta e antecedente in tutto il cammino del mio ritorno a lui. Perfino il prendere coscienza della gravità del mio peccato avviene solo alla luce della parola di Dio che mi illumina e mi chiama al pentimento. È il suo amore misericordioso che riesce a vincere in me la suggestione del peccato e a farmi rientrare in me stesso e dire: Ritornerò da mio Padre (Lc 15,18).

Tutto questo si realizza in Cristo che è la nostra riconciliazione e la nostra pace.

È lui il buon pastore che cerca la pecora smarrita. La Chiesa si fa annunziatrice di questo amore preveniente per incoraggiare e sostenere il peccatore pentito sulla via del ritorno a Dio.

Conversione: Dio perdonando ci cambia dentro

Non basta riconoscere l’iniziativa dell’amore di Dio nella nostra conversione; occorre anche capire nel modo più giusto la natura del suo perdono.

Noi ci convertiamo solo perché vinti dalla grazia che ci cambia interiormente. La conversione non è la condizione per essere perdonati, ma la dimostrazione che il perdono di Dio ci ha raggiunto e ci ha cambiato il cuore.

Se il peccato non è solo un’offesa o un debito, ma una vera distruzione di essere, il perdono è una nuova creazione, una nuova nascita, una reale trasformazione interiore.

O cambiamo dentro, e allora è un segno che il perdono di Dio si è fatto strada in mezzo alle nostre resistenze; oppure restiamo attaccati al nostro peccato, e allora continuiamo a dire no a Dio e ad apporre il nostro veto al suo amore.

Questa è la realtà misteriosa, umana e divina allo stesso tempo, della riconciliazione cristiana. La conversione è quindi sempre solo il risvolto umano, visibile e sperimentabile, di una trasformazione interiore operata in noi - prima ancora che dalla nostra buona volontà - dalla grazia di Dio.

La realtà più profonda e vera della riconciliazione resta racchiusa nel segreto della nostra anima, dove Dio compie, con la collaborazione della nostra libertà, i miracoli del suo amore misericordioso.

La conversione principalmente non è un atto puntuale (che si esaurisce in un punto), un momento forte della vita (quello che segna il passaggio dal peccato alla grazia).

Essa è prima ancora una dimensione permanente di tutta la vita cristiana.

L’itinerario della conversione

Le radici del peccato restano in noi anche dopo il perdono di Dio e la nuova nascita alla vita divina. Il peccato resta in noi con la sua potenza di morte (cattive abitudini, tendenze e desideri cattivi) nonostante la serietà del nostro pentimento e del nostro proposito di non peccare più, e resta anche nelle strutture del mondo, della società, della cultura, nella storia dell’uomo che è una storia di peccato.

Chi sceglie Cristo si impegna con lui in una lotta senza sosta contro il peccato, che lo impegna tutta la vita. Tutta la vita è un continuo convertirsi, un continuo ritorno a Dio.

Percorriamo insieme l’itinerario di questa conversione, che è il risvolto umano della riconciliazione.

a) Riconoscere la propria condizione di peccatori

All’inizio di questo itinerario, sta il riconoscimento della verità della propria condizione di peccatori. È il ritornare in sé per dire: Padre, ho peccato contro il cielo e contro di te (Lc 15,18).

Naturalmente il senso di colpa esisteva ancor prima che iniziasse l’itinerario della conversione. Essa ricorda al peccatore che il peccato è contro i suoi interessi più veri e contro le sue aspirazioni più profonde. Lo stato di peccato è divisione, lacerazione e sofferenza interiore. Per questo si sente tanto il bisogno di vivere alla superficie del nostro essere, di impedire alla coscienza di farci sentire i suoi rimproveri; sentiamo il bisogno di stordirci di rumori e di emozioni intense, di non restare soli con noi stessi e con la consapevolezza penosa e umiliante della nostra condizione di peccatori.

Ma l’itinerario della conversione comincia quando il senso di colpa viene illuminato dalla speranza del perdono e del rinnovamento.

Oggi la psicologia è molto diffidente nei confronti del senso di colpa: ci vede una forza psichica negativa, che si trasforma facilmente in un bisogno morboso di punizione, in autodistruzione; causa di numerose forme di malattia psichica, di nevrosi da ansia, di ossessioni pericolose.

Ma il senso di colpa che porta alle malattie dello spirito è quello non illuminato dalla speranza del perdono, quello vissuto nella solitudine di chi non crede più nell’amore incondizionatamente accogliente del Padre.

Quando la fiducia nell’amore di Dio e la speranza del perdono illuminano il senso di colpa, esso cambia radicalmente natura: quello che prima era oscura paura del castigo, irritazione dell’orgoglio ferito, si trasforma in una confessione che esprime umiltà e verità, e porta alla conversione, alla salvezza e quindi alla gioia.

b) L’incontro con la parola di Dio

Alla radice di ogni conversione ci deve essere un rinnovato incontro con la parola di Dio, che ci annuncia la forza invincibile del suo amore misericordioso. Il rito della riconciliazione prevede che la celebrazione del sacramento inizi con una lettura biblica che annuncia la certezza di questo amore e risuscita la fiducia del peccatore e il suo desiderio di sperimentare nuovamente l’abbraccio del Padre.

c) La ragionevolezza di dire i peccati

Fare la verità nella propria vita è esattamente il contrario di quanto ha fatto il peccato, che è sempre un fare la menzogna.

L’itinerario della riconciliazione è un itinerario di anti-peccato. Il peccato è egoismo, la riconciliazione è amore; il peccato è odio e divisione, la riconciliazione è comunione; il peccato è abiezione, la riconciliazione è ritorno alla dignità.

Da questo punto si può capire la ragionevolezza profonda della confessione dei propri peccati richiesta dalla disciplina penitenziale della Chiesa: essa non ha lo scopo di umiliare il penitente, ma di rifare la verità nella sua vita; di dare corpo e concretezza alla sua volontà di antipeccato. Senza il coraggio di una confessione veritiera e liberatrice, la decisione di ritornare a Dio corre continuamente il pericolo di restare uno stato d’animo puramente illusorio, e quindi sterile e inutile a tutti gli effetti.

d) Pentimento e riprogettazione

La confessione è solo uno dei momenti della conversione che riconcilia con Dio.

Nel cuore della propria libertà, la conversione consiste in una decisione radicale di riorientare tutta la propria vita in una direzione nuova, esattamente opposta a quella impressa dal peccato. Questa decisione è prodotta in noi dalla grazia, ma resta tuttavia una decisione libera della nostra volontà: la grazia non ci costringe, non ci rende meno liberi, ma ci restituisce a quella libertà che il peccato ci aveva tolto.

La nuova decisione si rivolge verso il passato e lo rinnega con quell’atto di libertà che si chiama pentimento.

La nuova decisione si rivolge inoltre al futuro che viene riprogettato secondo la volontà di Dio: è il proposito. Esso non consiste solo nella generica volontà di non ripetere più il peccato. È la progettazione seria e positiva di una lotta contro il peccato, per tagliare le radici che esso mantiene nella nostra psicologia, i desideri cattivi da cui è nato, per sviluppare abitudini contrarie, per riparare, nella misura del possibile, i danni fisici o morali che esso ha procurato al prossimo.

e) Riprogettare con un esperto

La mia esperienza di fragilità, di debolezza e di incostanza mi consiglierà l’aiuto di un qualche esperto per la riprogettazione del mio futuro di conversione, per l’elaborazione di una strategia di lotta più efficace e seria.

Anche da questo punto di vista si riscopre un elemento di profonda ragionevolezza nella pratica della confessione, che costituisce uno dei momenti necessari della celebrazione del sacramento della riconciliazione.

f) Morire per vivere

I progetti e le strategie hanno bisogno di essere messi in pratica. La lotta contro il peccato durerà tutta la vita. Si tratta di far morire in noi gli alleati del peccato e di riparare faticosamente le conseguenze negative del passato.

Tutto questo comporterà sacrifici e rinunce. Si tratta di rinnegare se stessi: di morire all’uomo vecchio, che è in noi come residuo del peccato, per vivere la realtà dell’uomo nuovo, nella giustizia e nella verità. Si tratta di far morire la parte sbagliata di noi stessi per vivere dignitosamente secondo il progetto di Dio.

Questo morire -per- vivere è simboleggiato nel sacramento della riconciliazione dalla soddisfazione o penitenza. Questa ha un valore di simbolo e di richiamo. Ci ricorda il nostro impegno a combattere contro il peccato con tutte le nostre forze. Quindi la penitenza non è il pagamento del conto dei peccati confessati, ma l’inizio dei sacrifici e delle rinunce per portare a termine una piena vittoria contro le radici del peccato dentro di noi.

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LA CHIESA TRA DIO E GLI UOMINI

La conversione è essenzialmente un impegno di anti-peccato: una decisione della libertà umana, mossa e sorretta dalla grazia, di rigettare il peccato e di riorientarsi di nuovo verso Dio facendo di lui lo scopo e il senso ultimo della propria vita.

Ora questa decisione si esprime in gesti concreti anti-peccato, che danno scopo e autenticità alla volontà interiore di conversione.

Una caratteristica fondamentale del peccato è la sua capacità di creare divisione. Esso allontana l’uomo da Dio e dai fratelli. Anzi porta la lacerazione e la frattura perfino nell’intimo del suo cuore, facendo del peccatore un uomo diviso tra la forza del richiamo di Dio e la forza della suggestione del demonio. La conversione deve comportare quindi una riconciliazione; è essenzialmente una riconciliazione.

Il peccatore si riconcilia anzitutto con Dio

Per riconciliarsi con Dio non occorrono tante trattative. Il sangue di Cristo è già stato versato come prezzo di questa riconciliazione. Dio non pone altra condizione se non quella che il peccatore si apra nuovamente al suo amore e al suo progetto di salvezza. Questa condizione è già stata resa possibile dal suo amore preveniente attraverso il sacrificio di Cristo e il dono dello Spirito Santo.

Il peccatore si riconcilia con gli uomini

Il peccato ha rotto la comunione degli uomini tra di loro. Questa comunione non è un lusso superfluo: fa parte integrante del progetto di salvezza di Dio.

La salvezza che Dio ha preparato per l’uomo consiste nella comunione che si realizza nell’amore che ci unisce completamente a lui e a tutti gli uomini per formare insieme la famiglia di Dio, il popolo di Dio. Quindi nessuno ama veramente Dio se non ama i fratelli: non realizzo la mia salvezza se non costruisco con tutte le forze la fraternità tra gli uomini.

Il peccato ha rotto questa fraternità, mi ha realmente separato dagli altri. Non posso riconciliarmi con Dio senza riconciliarmi con loro, senza ricostruire, per quanto dipende da me, la fraternità che io stesso ho distrutto.

Il peccato mi rende debitore di tutti

Questa riconciliazione è una cosa seria. Per chi ha rubato, frodato, mentito, l’unica vera riconciliazione possibile passa attraverso lo sforzo sincero di riparare il male fatto.

Ogni peccato fa del male anche ai fratelli. Anche il più segreto dei miei pensieri peccaminosi mi divide da loro, è un furto nei loro confronti, un’ingiusta sottrazione del mio amore, della mia solidarietà nell’ambito umano e soprattutto nell’ambito della fede e della grazia.

L’umanità è un mondo di fratelli in cui ognuno è affidato a tutti, e nessuno può mai dire a Dio: Sono forse io il custode di mio fratello? (Gen 4,9). Ogni peccato mi rende quindi debitore nei confronti dei miei fratelli, mi mette dalla parte del torto: Confesso a voi fratelli che ho molto peccato, per mia grandissima colpa. Ogni peccato è una ferita da cui esce la ricchezza di bene e di grazia dal corpo di Cristo che è la Chiesa e tutta l’umanità, e fa abbassare il livello di amore e di vita in tutto il mondo. Con il mio peccato ho lavorato anch’io per i fallimenti degli altri, vicini e lontani. Il fallimento della storia umana (guerre, omicidi, furti, odii di ogni genere) è frutto del peccato del singolo e della società.

La riconciliazione è impegnativa

La riconciliazione esigita da una conversione autentica è quindi molto impegnativa.

È anche per colpa mia se il mondo è ingiusto e ostile. È colpa del mio egoismo e della mia inerzia se milioni di uomini muoiono di fame, di guerre, di droga.

Purtroppo ognuno di noi vede le ingiustizie che gli altri commettono nei nostri confronti; tutti si mettono nei panni delle vittime, e quasi nessuno riconosce la sua parte di responsabilità e di colpa. Ma non possiamo chiedere perdono a questi fratelli e a Dio se non ci impegniamo a lottare coraggiosamente contro questi mali del mondo di cui siamo in qualche modo complici, e quindi se non lottiamo contro il nostro egoismo e la nostra passività che continuano ad alimentare questi mali.

Per questo oggi si chiama più volentieri sacramento della riconciliazione quello che una volta si chiamava sacramento della confessione. Riconosciamo così che il ritorno del peccatore a Dio comporta una vera e propria riconciliazione non solo con lui, ma anche con i fratelli.

E perfino una riconciliazione con noi stessi, con la verità profonda del nostro essere che il peccato ha sfigurato e distrutto.

Un potere che la Chiesa ha ricevuto da Cristo

In tutto questo, cosa c’entra la Chiesa? Perché essa si intromette nel mio processo di conversione? Perché mi devo riconciliare anche con lei e nella forma che essa stabilisce? Perché mi devo confessare a un sacerdote? Perché non posso sbrigarmela da solo con Dio o con i fratelli che ho offeso?

La risposta che la Chiesa dà a questa serie di domande è duplice. Una prima risposta è un rimando all’autorità di Dio manifestata a noi in Cristo. La seconda è un’analisi approfondita della logica stessa della riconciliazione, alla luce di quello che la Chiesa rappresenta per la fraternità umana in Cristo.

La volontà di Dio manifestata in Cristo

Leggiamo il vangelo per vedere se davvero ci sono, da qualche parte, nelle parole o nelle azioni di Gesù, espressioni o comportamenti che giustifichino il ruolo o il potere che la Chiesa si attribuisce.

Gesù non ha annunciato in modo generico la sua misericordia verso i peccatori, ma anche concedendo espressamente il perdono dei peccati ai peccatori pentiti.

Al paralitico che gli avevano calato davanti dal tetto della casa in cui predicava, ha detto: Figliolo, ti sono rimessi i tuoi peccati (Mc 2,5). All’adultera che, per il suo intervento, nessuno aveva avuto il coraggio di lapidare, dice: Neanch’io ti condanno; va’ e d’ora in poi non peccare più (Gv 8,11).

Sono parole e gesti pieni di autorità. Gesù proclama che il suo intervento libera dal peccato coloro che ricorrono a lui e li restituisce rinnovati alla vita.

Una nuova condizione di amicizia con Dio

L’autorità di Gesù ha una reale efficacia di salvezza. Nel caso del paralitico, la guarigione della malattia del corpo rivela la vera natura del perdono dei peccati: è una prodigiosa e misteriosa guarigione dell’anima. Gesù fa passare tutto l’uomo dalla malattia alla sanità.

Le parole di Gesù non sono dichiarazioni vuote, ma parole piene di misteriosa efficacia; il potere a cui lui faceva riferimento è una reale capacità di cambiare le cose e le persone, di trasformare il cuore dell’uomo.

Ebbene, Gesù ha concesso questo suo potere agli apostoli e, attraverso di essi, alla Chiesa, perché lo esercitasse a suo nome e con la sua stessa efficacia di salvezza.

A Pietro ha detto: A te darò le chiavi del Regno dei Cieli, e tutto ciò che legherai sulla terra sarà legato nei cieli, e tutto ciò che scioglierai sulla terra sarà sciolto nei cieli (Mt 16,19). Le stesse parole sono rivolte a tutti gli apostoli in un contesto di correzione fraterna, dove Gesù sottolinea l’autorità della Chiesa: Tutto quello che legherete sopra la terra sarà legato anche in cielo, e tutto quello che scioglierete sopra la terra sarà sciolto anche in cielo (Mt 18,18). Legare e sciogliere, nel linguaggio di Gesù, significa la pienezza del potere. Le chiavi del regno dei Cieli indicano il potere di introdurre nella nuova condizione annunciata e instaurata da Gesù, quella di figli e amici di Dio, riconciliati con lui e destinati a un’eterna comunione d’amore.

La Chiesa ha il potere di introdurre in questa condizione coloro che, pentiti dei loro peccati, si aprono alla misericordia di Dio, e di dichiarare esclusi dal regno di Dio coloro che, chiudendosi all’amore di Dio e all’invito della Chiesa, preferiscono restare nel loro peccato.

Apparendo agli apostoli dopo la risurrezione Gesù ripeteva la stessa cosa: Ricevete lo Spirito Santo; a chi rimetterete i peccati, saranno rimessi e a chi non li rimetterete resteranno non rimessi (Gv 20,23).

Si tratta senza dubbio di parole che indicano un potere. Gesù ha detto: Come il Padre ha mandato me, così io mando voi (Gv 20,21). Il potere della Chiesa è quindi lo stesso potere di Gesù. La mediazione della Chiesa affonda le radici nella mediazione di Gesù.

 Gesù e la Chiesa tra Dio e gli uomini

Dimostrando di avere il potere di rimettere i peccati e concedendo questo potere alla Chiesa, Gesù mette se stesso e la Chiesa in posizione di mediazione tra Dio e gli uomini. La Lettera agli Ebrei afferma con chiarezza questa condizione di mediatore della nuova Alleanza (Eb 9,15; 12,24) che compete a Gesù in quanto uomo e Figlio di Dio nello stesso tempo.

Gli uomini col peccato si sono separati dalla sorgente della vita e dell’amore, sono diventati incapaci di compiere il primo passo per ritornare a Dio. Proprio per questo Dio fa il primo passo, si china per primo sull’uomo. Gesù è questo chinarsi di Dio sull’uomo, è la concreta offerta di una riconciliazione e di una vita nuova. Gesù è il Dio-con-noi, il Dio fatto uomo; come Dio ha tutto il potere di vita e di salvezza che solo Dio possiede; come uomo è la presenza di Dio in mezzo alla nostra miseria, la certezza dell’amore misericordioso e del perdono di Dio. Nella sua stessa persona si stabilisce l’unione più stretta e indissolubile tra Dio e l’uomo. Da questo punto di vista la sua condizione è unica, divina ed umana allo stesso tempo. La sua croce e la sua risurrezione sono la riconciliazione definitiva tra Dio e l’uomo.

La Chiesa non può essere detta mediatrice in senso stretto perché essa è fatta di uomini bisognosi della redenzione di Cristo. Ma Gesù ha affidato alla Chiesa il compito di rappresentarlo tra gli uomini di ogni tempo, mettendo a loro disposizione i benefici della sua redenzione.

La Chiesa non possiede niente di suo e non esercita alcun potere per conto proprio.

Non ha altre ricchezze che quelle di Cristo, e le distribuisce in suo nome. Gesù ha voluto inequivocabilmente che i benefici della sua redenzione arrivassero agli uomini, almeno normalmente, attraverso la Chiesa. La Chiesa è dunque sacramento universale di salvezza. Essa annuncia con la sua parola e la sua vita il perdono e la riconciliazione di Dio, e mentre li annuncia li rende anche presenti e li comunica agli uomini. Gesù è presente in essa fino alla fine dei tempi per esercitare, attraverso il suo ministero umile ma necessario, la sua opera di salvezza nei confronti di tutti gli uomini.

Il sacramento della riconciliazione è un segno di questa presenza salvifica di Gesù nella Chiesa e nel mondo. Ricevere il perdono dalla Chiesa è ricevere il perdono da Cristo che opera attraverso la Chiesa e che attraverso questo strumento salva e divinizza l’umanità.

La Chiesa ha dunque ricevuto da Dio il potere di rimettere i peccati. Ma la riconciliazione è molto di più che il condono di un debito; essa cambia l’uomo e non soltanto i suoi conti con Dio. Quindi il ricorso all’autorità di Dio per giustificare il modo di agire della Chiesa, va integrato con un ulteriore sforzo di comprensione. È necessario scoprire il perché della mediazione della Chiesa dentro la stessa logica delle cose, cioè vederla come un’esigenza posta dalla realtà del peccato e della riconciliazione.

Cominciamo col vedere cos’è la Chiesa nel progetto di Dio.

Essa è un segno visibile e un germe di quella piena comunione degli uomini con Dio e tra di loro, che costituisce il suo disegno di salvezza nei confronti dell’umanità.

Questa unione profonda, che sulla terra è ancora imperfetta e germinale, è avviata verso la pienezza del regno di Dio. Ora il peccato attenta a questa unità. Attenua il legame visibile con la Chiesa, attraverso l’egoismo, la chiusura dei cuori e le divisioni che provoca, e quello invisibile che è la comune partecipazione al dono dello Spirito Santo che è la vita di Dio. Il peccato ci separa quindi dall’anima della Chiesa, che è lo Spirito Santo, e fa di noi membri senza vita del Corpo di Cristo.

Tutta la Chiesa viene così danneggiata dal peccato di ognuno dei suoi membri. Si capisce allora che non ci è possibile rinnegare il peccato, combatterlo e sradicarlo in noi, senza riconciliarci con la Chiesa. E non solo in maniera invisibile, ma anche con gesti visibili, sacramentali perché il peccato l’ha ferita anche con atti esterni.

Una disciplina ispirata all’amore

Occorre dunque riconoscere davanti alla Chiesa i peccati che hanno rotto la nostra comunione nei suoi confronti e accogliere con umile riconoscenza il suo perdono, il suo abbraccio di pace. Il peccatore, riconciliato con la Chiesa, ritornerà in comunione con Dio e riavrà il dono dello Spirito di cui essa vive e da cui il peccato l’aveva separato.

Il sacramento della confessione non va visto quindi come una condizione arbitraria imposta dalla Chiesa al peccatore. Essa è piuttosto una condizione imposta dalla forza delle cose, dalla logica del peccato e della riconciliazione.

La disciplina penitenziale della Chiesa è tutta e solo ispirata all’amore misericordioso di Dio, è costituita dalle esigenze stesse dell’amore. Una disciplina che si ispira all’amore è una disciplina educativa, quindi ragionevole e flessibile, che si adegua alle esigenze dell’educando e al suo vero bene, pur nel rispetto imprescindibile delle esigenze oggettive della vera riconciliazione (che sia cioè capace di convertire veramente il cuore dell’uomo).

La Chiesa sigilla l’avvenuta riconciliazione del penitente con una formula di assoluzione. Essa quindi gestisce il sacramento della riconciliazione in modo giudiziale.

Bisogna però dire con chiarezza che il potere della Chiesa non è esercitato alla maniera in cui i tribunali umani amministrano la giustizia.

Il potere della Chiesa è il potere di Cristo: è una forza di salvezza; esso viene esercitato secondo una precisa volontà di amore. Il potere della Chiesa è il potere dell’amore di Dio: un potere che mentre condanna il peccato mettendosi contro la sua logica di morte, assolve il peccatore pentito e lo restituisce a quell’amore da cui si era liberamente separato.

 Il no del sacerdote è un "non ancora"

L’espressione di Cristo: A chi non rimetterete i peccati resteranno non rimessi, non autorizza la Chiesa a negare il perdono a chi è veramente pentito e deciso a riparare.

Solo chi rifiuta di aprirsi a Dio con un pentimento sincero, chi rifiuta di riconciliarsi con i fratelli nella Chiesa, resta prigioniero del suo peccato e la Chiesa deve prenderne atto e dirlo chiaramente all’interessato.

Ma neanche quando la Chiesa fosse costretta a giudicare che, in base a quanto appare esternamente, non esistono ancora in un’anima i segni di una conversione neppure iniziale, anche allora la Chiesa non è mai autorizzata a proclamare la sconfitta definitiva dell’amore di Dio. Il no del sacerdote è sempre soltanto un non ancora. Il giudizio della Chiesa, per quanto serio, è sempre basato solo sui segni esterni del pentimento mostrati dal penitente. Solo Dio vede il cuore dell’uomo nella sua insondabile profondità. Dio solo è il signore del futuro. La Chiesa continua a pregare per il peccatore che essa crede di non poter ancora assolvere, continua ad annunciargli la parola di Dio, e a sperare che Dio trovi la strada per arrivare al cuore di ogni uomo, anche di chi sembra non essersi ancora arreso al suo amore.

La parola di assoluzione della Chiesa ha una sua specifica efficacia sacramentale: è una parola di grazia; mentre annuncia la misericordia di Dio, la rende presente e operante. Per chi non chiude il cuore a questa grazia, la parola di perdono della Chiesa, che è la parola di perdono di Dio, opera una più completa conversione del cuore umano.

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MA GUARISCE DAVVERO QUESTA MEDICINA?

L’esperienza dice che l’efficacia di trasformazione e di salvezza di questa parola di assoluzione non è sempre visibile e verificabile. Molti cristiani vi hanno trovato per molto tempo un certo senso di sollievo e di pace, ma hanno l’impressione di non essere riusciti a fare un solo passo avanti nella lotta contro i loro peccati. Ogni volta confessano le stesse colpe. E alla fine si domandano se il gioco valga la candela, se la confessione sia una medicina in grado di guarire il peccato o non soltanto una droga capace di tranquillizzare momentaneamente la coscienza.

Così molti finiscono per abbandonare la lotta.

Il problema è molto serio. Se la parola di assoluzione concede veramente un perdono che non è solo un condono ma una trasformazione reale, perché allora restiamo sempre gli stessi? Perché chi si confessa non è (o non appare) sempre molto migliore di chi non lo fa?

Rispondiamo che la grazia del perdono non può fare violenza alla nostra libertà; non può operare la sua trasformazione vittoriosa se non nella misura in cui noi ci apriamo alla sua azione liberatrice. Ci sono poi dei casi in cui l’esecuzione materiale della confessione non è accompagnata da un sincero pentimento. Altre volte si sente il disagio del proprio peccato, ma non si vuole veramente abbandonare la sua schiavitù. Molte volte il pentimento ha tutta l’apparenza della sincerità, ma ci si sente impotenti davanti al dominio del peccato in noi, ci si sente malati di una malattia che la confessione non sembra capace di guarire.

La grazia opera nel perdono

La grazia che ci perdona cambiandoci, non opera negli strati più superficiali della nostra personalità (ai livelli degli istinti, delle abitudini, della memoria, delle emozioni,...); per questo non possiamo sentirla, non possiamo verificarne la presenza e l’azione in maniera sperimentale. Essa opera nel più profondo della nostra libertà, dove siamo soli davanti a Dio e dove prendiamo le decisioni fondamentali della vita. È a partire da questo livello profondo della libertà che la grazia influisce, indirettamente, in tutti gli altri strati più superficiali della psiche. Su questi strati superficiali la nostra libertà esercita una padronanza solo parziale. Così le scelte particolari e il comportamento esterno della persona non nascono soltanto nelle sue intenzioni profonde, ma anche dai tanti condizionamenti (abitudini, pulsioni, istinti,... ) cui è soggetta. Ma deve essere chiaro che la persona è veramente responsabile solo di ciò che vuole con piena libertà. Per questo non tutti i comportamenti oggettivamente immorali di una persona sono sempre anche soggettivamente colpevoli. Non sempre ciò che è materialmente peccaminoso è peccato in senso totale e pieno, non sempre è un vero no della libertà a Dio; esso è solo il segno che la lotta contro il peccato, per quanto sincera e volenterosa, non ha ancora ottenuto il successo. Quasi mai si avrà la vittoria piena in questa vita: i nostri vizi moriranno tre giorni dopo di noi. Ma non per questo la confessione è stata inutile.

La confessione è segno che combatto

La confessione serve soprattutto a garantire che la nostra lotta contro il peccato è seria e non illusoria e proprio per questo le nostre cadute sono meno colpevoli o non colpevoli. Essa è segno che noi siamo spiritualmente vivi, che combattiamo, che non ci rassegnamo alla schiavitù del peccato. E questa è in fondo la nostra vittoria. Se combattiamo siamo già, in un certo senso, vincitori. Se continuiamo a impegnarci è perché l’amore di Dio continua a operare in noi anche attraverso la grazia del sacramento.

Al di là di tutte le mie sconfitte, anche umilianti, Dio mi tiene sempre saldamente nelle sue mani perché è mio Padre.