PERCHÉ CONFESSARSI?


(Pedron Lino)

 

INTRODUZIONE

Perché devo raccontare le mie cose a un uomo come me? Non basta che me le veda Dio?

Il fedele che non capisce la natura della Chiesa come mediazione tra lui e Dio, si pone queste domande ed altre ancora. Pur avendo ancora qualche impegno cristiano e una certa adesione a Cristo, ha abbandonato del tutto o quasi la pratica religiosa e sacramentale. Non ha capito la relazione tra sacramento e vita concreta. Non ha capito la natura e la necessità della conversione come fatto costante della vita cristiana. Davanti alle celebrazioni liturgiche e ai sacramenti ha un senso di fastidio e di rifiuto.

Le folle che incontrava Gesù, invece, esclamavano entusiaste: Oggi abbiamo visto cose prodigiose! Mai visto nulla di simile! (Mc 2,12; Lc 5,26).

Perché questa differente reazione davanti al Cristo del vangelo che si fa nuovamente presente nei sacramenti della Chiesa?

 "SE TU CONOSCESSI IL DONO DI DIO" (Gv 4,10)

Molte difficoltà sul sacramento della penitenza hanno le radici in un concetto falso o povero del cristianesimo.

È impressionante il fenomeno dell’ateismo e dell’indifferenza religiosa. L’uomo non conosce Dio e le sue opere. Se lo conoscesse non potrebbe rifiutarlo. Alcuni immaginano Dio in modo tale che quella rappresentazione che essi rifiutano, in nessun modo è il Dio del vangelo (GS 19).

Per alcuni Dio è un concorrente che impedisce all’uomo la gioia, la vita, il progresso.

Per altri è un essere inutile, con il quale o senza il quale la vita, il mondo, la storia vanno avanti ugualmente.

Gli stessi credenti vedono o sentono Dio come un essere lontano, vago e astratto. Oppure come un grande re in trono che chiede ed esige omaggi. Essi pensano: Purtroppo c’è anche lui, anche se è un incomodo! Come sarebbe bello se non ci fosse! Volenti o nolenti bisogna fare i conti con lui, adesso, e soprattutto alla fine della vita. E quindi attraverso un minimo di riti e doveri religiosi, cercano di tenerlo buono, con la speranza che l’incontro finale con lui non sia un disastro.

Altri lo vedono come un carabiniere pronto a prendere in fallo per sparare e dannare.

Voltaire ha scritto: Dio ha creato l’uomo a sua immagine e l’uomo si è creato un Dio a sua immagine.

Il cristianesimo è un annuncio di gioia, una lieta sorpresa che fa trasalire di stupore: questo è il significato della parola vangelo.

Questa sorpresa, questo stupore, questo vangelo è Gesù Cristo in persona, Dio fatto uomo, diventato il Dio-con-noi, il Dio-con-me. Il NT si apre proprio con questo annuncio gioioso: Gioisci, tu che sei stata colmata di grazia, il Signore è con te (Lc 1,28).

Un passo della Bibbia ci spiega stupendamente il perché Dio è diventato uomo: La vita si è fatta visibile, noi ne rendiamo testimonianza e vi annunziamo la vita eterna, che era presso il Padre e si è resa visibile a noi; quello che abbiamo veduto e udito noi lo annunciamo anche a voi, perché siate in comunione con noi. E la nostra comunione è con il Padre e con il Figlio suo Gesù Cristo (1 Gv 1,1-3).

Tutta l’opera di Gesù Cristo, nascita, vita, morte, risurrezione e ascensione al cielo, ha questo scopo: formare comunione tra Dio e l’uomo e tra l’uomo e l’uomo.

Comunione vuol dire avere in comune una realtà e vivere di essa.

Che cosa c’è di comune tra Dio e l’uomo?

Dopo la redenzione operata dal Cristo, Dio e l’uomo hanno tutto in comune, perché in Gesù sono avvenuti due fatti importantissimi:

- In Cristo, Dio e l’uomo entrano in comunione. Il Figlio di Dio prende la natura umana e comunica all’uomo la natura divina. Ora in Gesù Cristo, Dio ha la natura umana presa da noi e quella divina che ha in sé. L’uomo ha la natura divina donatagli da Cristo e la natura umana che ha in sé. Avendo le stesse realtà in comune, sono in comunione. È lo scambio mirabile cantato dal Natale: Dio si è fatto uomo perché l’uomo diventasse Dio.

Dio non è in concorrenza con l’uomo, ma in comunione. E in questa comunione l’uomo trova il significato e la pienezza della propria vita. Dio ha creato l’uomo per avere qualcuno su cui riversare i suoi benefici. Dio non ha bisogno dell’uomo, ma l’uomo ha bisogno della comunione con Dio (s. Ireneo).

- Cristo lega a sé tutti gli uomini che lo accettano.

Unendoli a sé, comunica loro la sua stessa vita divina e li mette in comunione gli uni con gli altri, in se stesso.

Ecco la Chiesa: il popolo nuovo formato da coloro che per mezzo della Spirito e della fede sono uniti al Corpo di Cristo (Durwell). Siamo concorporei con Cristo, perché egli ci ha incorporati ad un solo corpo, il suo. Siccome tutti quelli che aderiscono a Cristo hanno la medesima unica vita divina comunicata loro da Cristo, formano comunione, come le membra di un corpo.

Il cristianesimo appaga pienamente la sete di fratellanza e di comunione. Proprio accettando e vivendo il piano di Dio, l’uomo e la società raggiungono la felicità. Dio non è in concorrenza con l’uomo, ma è il suo grande alleato.

Ma Cristo incarnandosi è rimasto sempre della Trinità. Legando a sé ogni fedele e la Chiesa intera, porta tutti nel cuore della Trinità. E questa non è fantasia. È stupenda realtà di fede. Il Padre ci ha fatti sedere con Cristo nei cieli (Ef 2,16), siamo familiari di Dio (Ef 2,19), siamo cioè entrati nella grande famiglia di Dio. La Chiesa universale si presenta come un popolo adunato nell’unità del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo (LG 4). Il mondo intero è chiamato ad entrare nella Chiesa per entrare a vivere nella Trinità.

Il peccato è tutto il contrario di questo progetto d’amore e di comunione voluto da Dio.

 "AMA"

La riscoperta del sacramento della penitenza è legata anche all’esatta comprensione del rapporto con Dio. Dio ci chiama alla comunione con sé e con i fratelli: in altre parole, ad amare lui e i fratelli. Quindi la nostra vita con Dio e con i fratelli va impostata sull’amore: Un dottore della legge interrogò Gesù per metterlo alla prova: "Maestro, qual è il più grande comandamento della legge?". Gli rispose: "Amerai il Signore Dio tuo con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutta la mente. Questo è il più grande e il primo dei comandamenti. E il secondo è simile al primo: Amerai il prossimo tuo come te stesso. Da questi due comandamenti dipende tutta la Legge e i Profeti" (Mt 22,35-40).

Questa parola tutto è dura ed entusiasmante insieme. Vuol dire senza limiti, perché la misura dell’amore è amare senza misura! È una meta mai perfettamente raggiunta, ma è qui che si misura la tensione autentica di una persona.

Nell’ultima udienza generale papa Giovanni Paolo I disse: "Il totalitarismo in politica è una brutta cosa. In religione invece un totalitarismo nei confronti di Dio va benissimo. Quel ‘tutto’ ripetuto e piegato alla pratica con tanta insistenza è davvero la bandiera del massimalismo cristiano. Ed è giusto: è troppo grande Dio, troppo egli merita da noi, perché gli possiamo gettare, come ad un povero Lazzaro, appena poche briciole del nostro tempo e del nostro cuore".

La tensione serena verso questo tutto dovrebbe crescere fino a coinvolgere la vita nella fiamma purissima dell’amore di Dio. C’è arrivata anche una mistica musulmana, una povera schiava, Rabi’a Al Adawiyya, morta nell’ 801: "O Dio, se ti adoro per paura dell’inferno, bruciami nell’inferno. Se ti adoro per la speranza del paradiso, escludimi dal paradiso. Ma se ti adoro per amor tuo soltanto, non ritirare da me la tua eterna bontà. Tu sei abbastanza per me!". E san Francesco d’Assisi ha esclamato: "Tu sei il sommo bene, tu sei ricchezza che a tutto basta!"

La medesima impostazione vale in rapporto all’amore del prossimo. Amarlo come Cristo ha amato noi vuol dire spendere la vita in uno sforzo che non conosce limiti e condizioni, perché in lui è presente Cristo che dobbiamo amare con tutto il cuore.

A questo punto ci domandiamo se la legge ha ancora senso. Certamente. Siamo creature umane e abbiamo bisogno spesso di un pungolo e di una verifica. La legge è fatta per gli ingiusti, non per i giusti (1 Tm 1,9). I giusti, amando, vanno oltre la legge. S. Giovanni della Croce ha scritto per coloro che sono arrivati alla sommità della salita del monte Carmelo: "Da qui in poi non c’è più legge, perché non c’è legge per i perfetti".

Nella situazione concreta di imperfezione, noi accettiamo umilmente la legge, ma dobbiamo viverla nell’amore, cercando di non fermarsi mai ad essa, perché l’osservanza senza amore non è osservanza. Dobbiamo andare oltre il minimalismo sterile e soffocante. Non dobbiamo accontentarci di un minimo, ma cercare di vivere in pienezza il valore che la legge ci presenta.

La legge allora diventa un dono che Dio ci fa per trovarlo e insieme per vivere il suo piano d’amore e di salvezza: "Nel seguire i tuoi ordini è la mia gioia, più che in ogni altro bene" (Sal 119,14).

L’amore ci costringe, ci rende schiavi di Dio e quindi liberi. La legge ci porta a entrare nell’amore di Dio.

 "PARTÌ PER UN PAESE LONTANO" (Lc 15,13)

Ricordiamo quanto ha scritto s. Ireneo: Dio creò l’uomo per avere qualcuno su cui riversare i suoi benefici... L’uomo ha bisogno della comunione con Dio.

Il piano di Dio consiste nella chiamata alla comunione con Lui e con i fratelli, fino alla totale comunione in cielo quando Dio sarà tutto in tutti (1 Cor 15,28).

Il peccato è rifiuto di comunione e quindi di tutto il piano di Dio. Il figlio prodigo, andandosene di casa, rifiutò la comunione con il padre e con il fratello (Lc 15,13).

La Bibbia ci presenta il peccato sotto una triplice visuale:

- È infedeltà a Dio, il rifiuto di comunione con lui. Dio ci ama come uno sposo: Come un giovane sposa una vergine, così ti sposerà il tuo creatore. Come gioisce lo sposo per la sposa, così il tuo Dio gioirà per te (Is 62,5; cf Os 2,21-22; Ez 16,8.14). Con il peccato rifiutiamo l’amore a Dio per donarlo a qualcosa d’altro: pecchiamo di adulterio verso Dio-sposo.

- È il rifiuto del fratello. Il peccato è una forza disgregatrice della comunità, della Chiesa e del mondo. Ogni peccato offende i fratelli e incrina la comunione nella Chiesa.

- È un fallimento. Se diventiamo uomini e cristiani solo in comunione con Dio e con i fratelli, con il peccato distruggiamo noi stessi. Noi siamo assetati di valori autentici, di bene, di felicità, di Dio e non di ghiande destinate ai porci (Lc 15,16). L’uomo caduto nel peccato deve confessare: Io qui muoio di fame (Lc 15,17). L’uomo che cerca la libertà lontano da Dio, suo padre, cade sotto la schiavitù di un padrone (Lc 15,15).

Dobbiamo renderci conto che ogni mancanza è sempre rifiuto di comunione con Dio e con i fratelli, e fallimento per noi stessi.

Non è peccato solo il fare il male, ma anche il non fare il bene. Il non amare quanto potremmo è già peccato. Il più grande comandamento non è non fare il male, ma ama con tutto il cuore. Finché non amiamo con tutto il cuore siamo sempre in peccato. E questa verità non deve procurarci un’angoscia che ci blocca e ci scoraggia, ma una volontà decisa di crescere nell’amore verso Dio e i fratelli.

 "MI ALZERÒ E ANDRÒ DA MIO PADRE" (Lc 15,18)

Il figlio della parabola decise di tornare dal padre quando si rese conto della sua situazione: Io qui muoio di fame! (Lc 15,17). Anche noi dobbiamo renderci conto della situazione in cui siamo: è il primo passo per intraprendere un cammino di conversione, di ritorno al Padre. Gesù cominciò la sua predicazione dicendo: Convertitevi e credete nel Vangelo (Mc 1,15). Convertirsi significa accorgersi di aver sbagliato strada, tornare indietro e imboccare la strada giusta. Credere nel Vangelo è intraprendere la strada percorsa da Cristo, la strada del lieto annuncio di salvezza. Questo lieto annuncio è Cristo stesso che ci libera dal male e ci porta a Dio.

La conversione è dono di Dio che ci fa nuovi dentro perché abbiamo una condotta nuova fuori, sul piano concreto della vita. Alla base di ogni conversione e vita nuova sta la scoperta che Dio è misericordia. La misericordia indica l’attaccamento che Dio ha verso di noi come creatore, padre, amico e sposo: è la sua fedeltà a se stesso e verso di noi.

Egli si accosta a noi amandoci.

Brucia in noi il male per salvarci: Non godo della morte del peccatore, ma voglio che il peccatore si converta e viva (Ez 33,11). Anche il castigo è sempre una manifestazione di amore: Il mio popolo è duro a convertirsi: chiamato a guardare in alto, nessuno sa sollevare lo sguardo. Come potrei abbandonarti, Efraim, come consegnarti ad altri, Israele? Come potrei trattarti al pari di Admà, ridurti allo stato di Zeboìm? Il mio cuore si commuove (= sconvolge) dentro di me, il mio intimo freme di compassione. Non darò sfogo all’ardore della mia ira, non tornerò a distruggere Efraim, perché sono Dio e non uomo; sono il Santo in mezzo a te e non verrò nella mia ira (Os 11,7-9).

Nella Bibbia c’è un concetto splendido: Dio è geloso di noi. Non vuole che ci innamoriamo di altri. E se ci allontaniamo da lui, egli non si rassegna e ci perseguita finché torniamo a lui. È il furore di Dio: un modo umano di esprimere la caparbietà dell’amore di Dio. Egli sa che solo amando lui saremo felici.

Il messaggio più forte lo troviamo in Os 2,16. Il profeta sta vivendo nella sua famiglia la vicenda di Israele amato da Dio, ma che ha abbandonato lo sposo-Dio diventando così una sposa adultera. Nonostante tutto, Dio non ha ribrezzo di avvicinarsi alla contaminata e fa di tutto per attirarla a sé: Ecco la sedurrò, la condurrò nel deserto e parlerò al suo cuore (Os 2,16).

Verrà Gesù e andrà in cerca della pecora smarrita, della dramma perduta (Lc 15,1-10) e dichiarerà di essere venuto per chiamare i peccatori (Mt 9,13). In Gesù, Dio non ha ribrezzo di avvicinarsi all’umanità contaminata perché è la sua sposa e la ama da Dio.

Dio non solo ci chiama alla conversione: egli ci dona la conversione. Toglierò da voi il cuore di pietra e vi darò un cuore di carne. Vi darò un cuore nuovo, metterò dentro di voi uno spirito nuovo, porrò dentro di voi il mio Spirito (Ez 36,26-27). Ci dona un cuore vivo e palpitante e mette dentro di noi lo Spirito Santo. Solo così possiamo amarlo con tutto il cuore e con il suo stesso amore.

"TI SONO RIMESSI I TUOI PECCATI" (Mc 2,5)

Gesù durante la sua vita terrena ha perdonato i peccati. Con la sua ascensione al cielo Gesù non è più visibile in mezzo a noi. Ma ha lasciato a persone visibili il suo potere di perdonare. Il giorno di Pasqua disse ai suoi apostoli: Ricevete lo Spirito Santo; a chi rimetterete i peccati saranno rimessi a chi non li rimetterete resteranno non rimessi (Gv 20,22-23).

La Chiesa è consapevole che il potere comunicato agli apostoli continua in essa lungo i secoli. Gesù ha detto ai suoi: Io sono con voi tutti i giorni sino alla fine del mondo (Mt 28,20).

Il perdono e la riconciliazione ci vengono donati nel sacramento della penitenza, detto confessione.

Il sacramento è un incontro con il Signore Gesù. Egli non ha abbandonato la Chiesa, non ha lasciato gli apostoli e i loro successori a occupare il suo posto, a fare la sua parte. Egli è il Risorto, è il Signore, è il Vivente, sempre presente e operante (At 2,24.32-36; ecc.). Egli è il Capo della Chiesa (Ef 1,22-23; Col 1,18).

Nel sacramento noi incontriamo Cristo che agisce mediante lo strumento che è il sacerdote. È il Signore Gesù che ci assolve e ci perdona.

Riassumiamo in breve la storia della salvezza operata dal Cristo. Il Figlio di Dio si è fatto uomo. Ha trovato un’umanità peccatrice. Ha preso su di sé tutti i peccati dell’umanità diventando lui stesso maledizione per noi (Gal 3,13), trattato da peccato in nostro favore (2 Cor 5,21). Con il suo incondizionato al Padre e ai fratelli ha cancellato tutti i nostri no. Tutto il peccato del mondo viene caricato su di uno, che, proprio per questo motivo, fa un’esperienza della sofferenza e della morte che resta senza analogia alcuna (H. U. von Balthasar). Davanti a Cristo, Uomo-Dio, tutto era presente. Ha visto i nostri peccati, li ha fatti suoi e se li è addossati (Is 53,4-6). I nostri peccati, fatti propri dal Cristo e tolti via con l’atto di amore della sua morte e risurrezione, sono già radicalmente cancellati; in Cristo siamo già perdonati. Con il sacramento della penitenza riceviamo il perdono che già esiste in Cristo, nella sua morte e risurrezione. Siamo perdonati in anticipo, incondizionatamente, da sempre. Nessuno deve disperare. Se l’uomo accoglie Cristo, il perdono è assicurato.

Nel sacramento della penitenza, Dio Padre accoglie il figlio pentito che ritorna a lui, Cristo prende sulle spalle la pecora smarrita e la riporta all’ovile, lo Spirito Santo santifica nuovamente il tempio di Dio e abita più abbondantemente in esso. Infine questo ritorno a Dio si manifesta in una partecipazione rinnovata e più fervente alla mensa del Signore; il fatto che il figlio ritorni da lontano è fonte di grande gioia al banchetto della Chiesa di Dio (Nuovo rito della penitenza, 6). Nel sacramento della penitenza siamo abbracciati dalla Trinità e dai fratelli: è una grande festa, una grande gioia. È il lieto annuncio della misericordia di Dio che perdona tutti e perdona sempre.

"GESÙ, VISTA LA LORO FEDE..." (Mc 2,5)

Cristo sì, Chiesa no! Me la vedo personalmente con Dio! : discorsi tanto frequenti sulle labbra dei fedeli e degli... infedeli! Ma Dio è più sapiente dei fedeli e degli... infedeli. Dio è intelligente e concreto. Egli ha voluto la Chiesa come segno visibile, sacramento mirabile (SC, 5) della sua presenza nel mondo. La Chiesa è il cammino di Dio verso gli uomini di tutti i tempi.

Chiariamo brevemente il significato di sacramento.

Sacramento è qualunque realtà visibile che contenga, manifesti e comunichi una realtà soprannaturale. Il primo sacramento è Gesù stesso: sembrava un uomo qualsiasi, in realtà era lo strumento attraverso il quale il Padre salvava l’umanità. Conteneva in sé, manifestava e comunicava una realtà soprannaturale. Il Cristo strumento necessario per essere salvati, continua la sua azione attraverso i secoli mediante la Chiesa che è il suo prolungamento, il suo sacramento.

Da tutto questo emergono conseguenze importanti per il sacramento della penitenza.

- La riconciliazione con Dio ci è data attraverso la Chiesa. Il paralitico (Mc 2,1-12) è stato aiutato da quattro amici per arrivare a Gesù: non è azzardato vedere in questi uomini la mediazione della Chiesa. Il sacerdote agisce in nome di Cristo e della comunità ecclesiale: Attore di questo evento sacramentale non è solo Dio che ci riconcilia mediante Cristo nello Spirito; è anche la Chiesa, operante nel ministro e nell’intera comunità (CEI, Evangelizzazione e sacramenti della penitenza e dell’unzione degli infermi, 64).

- La nostra riconciliazione con Dio è un fatto ecclesiale. La Chiesa è santa e peccatrice insieme: santa perché salvata da Cristo; peccatrice perché le sue membra cedono al male. In un corpo un membro malato è un danno e una sofferenza per il corpo intero; se guarisce, tutto il corpo ne acquista beneficio. Se ci convertiamo, è la Chiesa intera che si riconverte; se vinciamo il peccato, è la Chiesa intera che vince il peccato. Il nostro gesto coinvolge tutta la Chiesa.

- La nostra riconciliazione è anche con la Chiesa. Se il peccato è il rifiuto di comunione con Dio e con i fratelli, la riconciliazione è il ristabilimento della comunione con Dio e con i fratelli, ossia con la Chiesa. Nella celebrazione del sacramento della penitenza il sacerdote rappresenta Dio e la Chiesa. Confessando a lui i nostri peccati, li confessiamo a Dio e alla Chiesa; ricevuto da lui il perdono dei peccati, riceviamo il perdono di Dio e della Chiesa.

 "PADRE HO PECCATO !" (Lc 15,21)

La celebrazione del sacramento non può essere improvvisata. Sarà capita, desiderata e vissuta nella misura in cui avremo cercato di approfondire e di vivere i vari aspetti che abbiamo considerati fino a questo punto.

Sono fondamentalmente tre gli atteggiamenti concreti indispensabili nella celebrazione del sacramento della penitenza: la contrizione, l’accusa dei peccati e la penitenza.

- La contrizione è quel cambiamento intimo e radicale, per effetto del quale l’uomo comincia a pensare, a giudicare e riordinare la sua vita, mosso dalla santità e dalla bontà di Dio (Paolo VI, Paenitemini, 5). Il sacramento deve produrre un cambiamento intimo e radicale. Non si pretende che l’uomo diventi impeccabile, ma un impegno umile e sincero di morire al peccato per identificarsi sempre più con il Risorto è indispensabile.

- L’accusa dei peccati è la manifestazione delle colpe riscontrate in noi dopo un sereno esame di coscienza fatto alla luce della parola di Dio. Ma per un serio impegno di conversione occorre analizzare i nostri orientamenti di fondo: Nella confessione dei singoli peccati andrà soprattutto rilevato l’abituale orientamento colpevole della volontà e della vita (CEI, Evangelizzazione e sacramenti della penitenza e dell’unzione degli infermi, 71). Il peccato può essere un incidente sul percorso della vita, ma potrebbe essere anche un’abitudine accettata o poco combattuta che produce delle colpe in continuità. Il più grande comandamento è quello di amare con tutto il cuore: questo ci impedisce di vivere nella mediocrità spirituale.

- La penitenza è vista dal fedele come una tassa da pagare. Invece è necessario che la pena sia davvero un rimedio del peccato e trasformi la vita. Un’opera opposta al male che avvertiamo dentro di noi e che abbiamo accusato nella confessione. All’opera penitenziale proposta dal sacerdote dovremmo aggiungere noi stessi quelle pratiche di pietà, di penitenza e di amore che servono veramente alla nostra conversione.

CONCLUSIONE

Per la confessione non dobbiamo fidarci di un malinteso spontaneismo: ci vado quando mi sento. Si può accedere al sacramento della penitenza perché se ne sente il bisogno, o proprio perché non se ne sente il bisogno: anche questo secondo caso ha un senso e una validità: è come costringerci ad adeguarci ai voleri di Dio e non all’estro della nostra sensibilità (Maggiolini).

La confessione personale non dovrebbe essere così frequente da farla scadere in un gesto abitudinario, ma non dovrebbe essere neppure così rara da perdere l’esercizio e il gusto del senso della propria responsabilità di fronte ai propri peccati (Episcopato svizzero, 5 Novembre 1970).

La confessione dei nostri peccati deve aiutarci a diventare sempre più simili al Signore risorto. Resi più limpidi, potremo seguirlo più liberamente. Perché il sacramento della penitenza è il sacramento della liberazione e della libertà.

Tu volesti, o Signore, l’amore libero dell’uomo. Volesti che ti seguisse liberamente, incantato e conquistato da te (Dostoevsky).

VEDI ANCHE IL RITO della penitenza

Tratto da http://www.maranatha.it